testo extra-vergine da inserti riciclati, chiuso in Triana (GR) nel luglio 98, relato a Rocca Varano (MC) 2 agosto 98. Convegno "Tessere a mano", a cura del'Associazione "Arti e mestieri" di Macerata.
Nel titolo di questa relazione (o vagabondo saggio artigianale) dico che tratto della tessitura (a mano, in Italia, ai giorni nostri) della sua condizione miserabile (comprese le sue cause, spesso storiche). Poi passerò a descrivere alcuni miei personali esperimenti, attuati in contrasto all'attuale miseria, con il duplice obiettivo (1) di un generale giovamento culturale e (2) di un particolare giovamento economico per la reietta casta dei tessitori, alla quale mi onoro di appartenere. Infine, accennerò all'inquadramento delle descritte mie azioni (più che opere) tessili, nella ben più ampia cornice di un'arte vitalmente possibile, o possibilmente vitale. Ove per possibilità di vita, qui non si intenda più il mero compenso all'attività del tessitore ma addiruttura la sopravvivenza dell'umanità, in quanto specie dalle grandi pretese culturali.
Per ovvia brevità (dato il contesto), quando dirò tessitori, si sottintenda sempre "e tessitrici"; quando userò le parole "telaio, tessuto, tessitore, tessitura", si aggiunga sempre un sottin-teso "a mano". A questa mano (che di fatto, ne sottintende 2), si aggiunga sempre un sottinteso piede (che di solito, sono ancora 2) e il totale ci dà 4, che è un numero importante. La tessitura infatti coinvolge arti superiori ed inferiori, così come essa collega "le arti" maggiori e le minori. Questo nesso può anche far sorridere ma, tra le arti del corpo sociale e gli arti del corpo umano, corre una stretta e antica analogia.
L'Italia è davvero uno strano paese, è sempre in bilico tra la modernità più sfrenata e il sottosviluppo più arcaico. Per farne un breve esempio, abbiamo la più alta densità di telefonini e il più bassa densità di personal computer in tutto l'Occidente. Arrivando al nostro tema, la scuola italiana dell'obbligo non prevede alcun insegnamento di tessitura: un insegnamento che invece, è del tutto normale in altri paesi, moderni quanto e più del nostro. Perciò, pochi italiani hanno mai visto un telaio per tessere a mano, pochissimi hanno una qualche vaga idea di come possa funzionare troppi ritengono che sia del tutto estinto.
Perciò, chi organizza le cosiddette "mostre di artigianato", quando invita il tessitore gli raccomanda sempre di portare un telaio e di farci le famigerate "dimostrazioni artigiane dal vivo". Ricordo di aver partecipato a una di queste mostre. Stavo lì a tessere e il pubblico diceva: "Guarda! hanno ricostruito la bottega di una volta!" Insomma, il mio non sembrava uno stand come tutti gli altri: sembrava un museo. Un museo stranamente interessante, perché certe antichità hanno sempre un loro fascino: il telaio fa pensare a Penelope, alle ballate medievali, ai corredi della nonna. Chiunque veda un telaio, anche se di modernissimo design, chiede sempre di quanto sia antico. Poi chiede quanto tempo ci vuole per tessere qualcosa e infine conclude che "certo, ci vuole una bella pazienza" (magari è lui, che svolge tutti i giorni, il più abbietto lavoro burocratico). Sembra così che il telaio abbia uno stretto rapporto con il tempo, ma con un tempo che è sempre irriducibile al nostro vissuto quotidiano.
In effetti, non me ne stavo lì a tessere in fiera per fargli una recita storica ma perché tessere è proprio il mio mestiere. A nessuno fa piacere di esser preso per l'ultimo dei Moichani, perciò facevo l'esempio dell'avvocato Agnelli di Torino: è vero che oggi per spostarsi, ci sono le automobili, e lui ha tutte quelle che può desiderare. Ha pure elicotteri e aerei privati ma, appena può, va a farsi un bel giretto in barca a vela. Questo argomento susci-tava un certo rispetto e una notevole considerazione. Il telaio può dunque essere un lusso e il tessuto a mano un genere di lusso. Naturalmente, perché siano socialmente valorizzati, bisognerebbe vedere sotto il rolex di Agnelli, il polsino di una camicia tessuta a mano. I Reali del Nord Europa assolvono bene a questo compito: ogni tanto indossando i costumi tradizionali dei loro paesi, che sono ovviamente tessuti sempre a mano. Pare però che l'Italia sia giunta addirittura alla sua seconda repubblica e ha inoltre certamente la sventura di possedere una pletorica storia dell'arte.
Dunque pare che il 70% dei beni artistici e culturali prodotti dalla razza umana si trovi appunto in Italia. Questa definizione di patrimonio artistico può essere arbitraria ma le statistiche ufficiali dell'Onu ce ne attribuiscono appunto il 70%. I paesi più poveri di storia (o meglio: poveri di antichi Signori), debbono accontentarsi di istituire musei sulla cultura popolare, sui manufatti indigeni, dei pionieri, dei contadini. Noi italiani possiamo invece soltanto augurarci il saccheggio di qualche invasore, che finalmente ci alleggerisca di tanti ingombranti cimeli. Dopo di questo benedetto saccheggio (o basterebbe anche un'asta incruenta), ci sarà forse lo spazio museale per far vedere qualche bel tessuto.
Non è detto però che la storia migliori: i musei italiani sono i posti più noiosi del mondo, non c'è mai una sala giochi, neanche un bar per pigliarsi il caffè. Quando le scolaresche sono costrette a visitare un museo, per vendetta bucano i quadri a colpi di biro. Allora ci si scandalizza, senza pensare che anche Lucio Fontana, a suo tempo, cercò di superare il limiti della pittura bucando le tele (certo, i quadri erano i suoi ma l'arte non dev'essere di tutti?).
Così, non sono affatto certo che il museo italico sia davvero un buon posto per esporci dei telai: è sempre troppo statico, riduce tutto a venerabili mummie. Un telaio fermo è come un televisore spento, non trasmette affatto. Così bisogna accendere il telaio. Non è un fatto di mera informazione, è anche questione di sopravvivenza per la categoria dei tessitori. Infatti, chi non capisce la tessitura non può apprezzarla e, di conseguenza, non la comprerà mai. Così il tessitore non può dedicarsi alla produzione ma dovrà rassegnarsi a campare di corsi. Corsi magari spacciati per "formazione professionale", anche se, di questa benedetta professione, lui per primo non ci campa. Chi ha seguito il suo corso di tessitura, può a sua volta spacciarsi per maestro e insegnare ad altri sprovveduti, che a loro volta proliferano altri corsi. Questo cancro didattico è una delle malattie più gravi della nostra società e, naturalmente, non si limita al campo della tessitura (1). Il paradigma scolastico del rapporto professore/studente domina ormai la trasmissione del sapere. La sua sola alternativa rilevante è la contemplazione solitaria del video.
L'arte del telaio, ritrasmessa in questi corsi, scadrà sempre di più. Certo, può anche succedere di essere così fortunati da imparare almeno una lunga serie di armature. Sicché, in teoria, si saprebbe produrre una infinita varietà di tessuti ma poi il tessuto a mano che si incontra è quasi sempre scadente: tele gracili di fili troppo grossi, maniche che sforano di gomito, coperte rigide come tappeti, tappeti molli come asciugamani E' anche una questione di prezzi: più radi e grossi sono i fili, più svelta crescerà la loro tela, perché non deve costare più di tanto, altrimenti la gente non la compra. Pochissimi avranno il coraggio di investire più di tanto in un prodotto tessile, a meno che non sia firmato da una griffe autorevole che li garantisca socialmente. Ma i nostri tessuti sono così grossolani anche perché soltanto questa loro rozzezza potrà farli riconoscere come "fatti a mano". Infatti, anche i vestitucci indiani dei nostri mercatini, possono essere tessuti a mano, perché laggiù ci sono sempre diversi milioni di persone che li fanno ancora così. La loro tela è però così fine che qui non se ne accorge proprio nessuno. La nostra cecità è ormai abissale.
E' duro da ammettere, ma riguardo alla cultura del tessuto, l'Occidente è sottosviluppato. Forse il paese più arretrato in questo campo è proprio l'Italia, perché infatti è la patria dell'arte e della moda. Infatti, da una parte possiede quel famoso patrimonio artistico che sta più o meno rinchiuso nei musei e, dall'altra, è la patria dei grandi stilisti che stanno su tutti i giornali. Dall'epoca del Rinascimento, vige in Italia una gerarchia tra arti maggiori e minori, per cui la pittura è l'arte più degna di contemplazione. Se fossi uno storico dell'arte, chiamerei questo fenomeno "pìnaco-centrismo". Probabilmente, questa centralità deriva dalla imperfetta laicizzazione della pittura, un arte di origine sacra e che si guardava in chiesa. Ma la ricchezza artistica del Rinascimento risultò dal riciclaggio di una immensa ricchezza borghese accumulata con l'arte dei panni. Se qui si dice che i panni italiani invasero il mercato europeo, bisogna precisare che questo mercato era ristretto alle aristocrazie. Chi usava di damaschi e broccati, se non i principi e i cardinali? Così i mercanti di panni arricchirono e anche loro, tanto presero il vizio del lusso, che i Comuni facevano leggi suntuarie: vietate le maniche in seta se lunghe più di un braccio, vietati più di tanti trafori, più di tanti bottoni di brillanti Poi i mercanti divennero banchieri e infine si comprarono i feudi degli aristocratici, coi loro titoli no-biliari e relative rendite fondiarie. Fine dello spirito borghese in Italia, che gli storici chiamano "ri-feudalizzazione".
Pare perciò che in Italia sia successo questo: la borghesia (prima la grande, poi, col progresso, quella sempre più piccola, giù fino ai contadini e ai salariati) ha cercato di imitare le abitudini della nobiltà. Cercherò di spiegarmi meglio con un esempio molto casereccio: il Salotto Buono. E' quella stanza che non si usa quasi mai e che nei casi estremi ha sempre tutti i mobili ancora avviluppati nel cellophane del loro imballaggio originale. L'esatto contrario del Salotto Buono è quella che, nei in altri paesi, si chiama living room o Lebensraum, che vuol sempre dire stanza per viverci, non salotto di rappresentanza, come nelle di-more principesche. Qui da noi, molta gente di campagna, disponendo di ambienti più spaziosi degli appartamenti urbani, arriva ad allestire una Cucina Buona, da mostrare agli ospiti. In realtà, tutti i giorni la massaia lavora nella superstite Cucina Cattiva; la ha ancora conservata perché le risulta di molto più comoda. C'è anche chi si spinge all'estremo di costruirsi un Bagno Buono ma in questo, almeno, ci si manda gli ospiti. Tutti questi notevoli investimenti di denaro non hanno dunque alcuna motivazione economica che sia legata alla mera sopravvivenza ma invece, sono scelte puramente culturali. Perciò, in realtà, non è affatto l'alto prezzo del tessuto a mano ciò che lo mette fuori mercato.
Il lusso è indispensabile in tutte le culture, soprattutto nei paesi poveri, perché l'unico lusso che hanno è la loro cultura, che non si cura troppo di imitare quella dei Principi. Così, lì tutti investono in questi beni culturali che sono i loro costumi e corredi. E tutti hanno già gli occhi per guararli, senza doverseli aprire nei musei. Un amico senegalese, mi raccontava come al suo paese, per ogni bambino che nasce, occorre provvedergli una coperta tessuta a mano, che per loro ha un prezzo esorbitante. Sull'uso di questa preziosa coperta, son riuscito a farmi dire solo questo: "Quando sarai ospite a casa mia, tu dormirai sotto la mia coperta!" Poi mi ha raccontato che oramai, anche in Senegal, i telai scarseggiavano chi avrebbe più tessuto le loro indispensabili coperte? Però sono arrivati dei nuovi tessitori che si stabiliscono in Africa sono emigrati dal Perù. Questa storia mi pare affascinante, perché mi dimostra che la temuta globalizzazione può anche riservarci gradevoli sorprese.
Ma torniamo nell'Italia così ricca, e ai poveri suoi tessitori senza mercato. La nostra situazione reale è l'esatto contrario di quella fiabesca che fu descritta nel secolo scorso da H. C. Andersen. Andersen raccontava di quei tessitori imbroglioni che finsero di tessere un vestito stupendo per l'Imperatore. In questa fiaba, i marioli facevano vedere a tutti un tessuto che in realtà non esiste. In realtà, oggi da noi, nessuno sa vedere il tessuto esistente. Ma il potere o il prestigio di una qualche autorità può sempre indurre il pubblico ad apprezzare il tessuto. E' quanto mi è di fatto capitato, quando allestii una mostra che si appunto chiamava "Tessuti Invisibili". In un paese sulle colline dell'Alta Maremma, raccogliemmo dei reperti di arte tessile contadina, sottraendoli alla cuccia del cane o al più nobile ufficio di proteggere dalla polvere l'automobile. Alla fine, tutto venne restituito ma prima, ogni pezzo di stoffa veniva poi fotografato con imponenti apparecchiature e poi pubblicamente esposto. Va detto che il pubblico era costituito in gran parte dalle stesse persone che avevano fornito i pezzi da esporre.
L'esposizione museale ha il potere di consacrare gli oggetti più profani, perché li sottrae a ogni tempo, spazio e uso quotidiano e li eleva al rango di simboli culturali e di reliquie. Le reliquie sono sempre preziose, anche in senso economico. Ma il momento decisivo della mostra avveniva quando il pubblico entrava in una sala buia. Qui era come il tabernacolo del tempio: sul grande schermo apparivano immagini, che mostravano i particolari del tessuto come geometrici paesaggi sconfinati e altri effettacci del genere. Ad esempio, improvvisi accostamenti d'immagine con varie texture riprese nello stesso tessuto paesano: pavimentazioni, murature, griglie, intagli litici o lignei, campi, biscotti.
Purtroppo, all'epoca non giravano troppe video-camere, così ci si dovette accontentare del lavoro magistrale di un fotografo come Piero Biasion. Non avevamo la televisione che, come dice Jannacci, ha la forza di un leone. Sono passati 15 anni, adesso si fa un libro di tutto quel lavoro. Per questo libro, Martha Nieuwenhuijs sta sviuppando un pacco di antichi scartafacci che rinvenimmo all'epoca. Si tratta di più di 50 diverse armature per tessere le tradizionali "coperte a opera", che sarebbero i tessuti paesani a rimettaggio ridotto. Tutto questo è un lavoro appassionante per chi si mette a farlo, ma poi, quanti saranno (e quali) coloro che vanno alle mostre? o peggio, quanti (e quali) sono coloro che sfogliano i libri? E per questi consumatori culturali, cos'è mai una mostra o un libro in più? Ma soprattutto, una cosa è tributare il rispetto dovuto ai beni culturali, altra cosa è apprezzarli intimamente. Si rischia ancora l'ipocrita omaggio al vestito dell'Imperatore che in realtà non si è visto per nulla.
Bruno Munari ci insegna che "vediamo soltanto ciò che abbiamo imparato a vedere". E allora come si fa, per imparare a vedere questi benedetti tessuti fatti a mano? Secondo me, si impara a mano. Non intendo affatto dire che dobbiamo toccare la stoffa, per sentirne la cosiddetta "mano". Intendo invece dire che dovremmo fabbricarla noi stessi, una stoffa, perché chi sente e vede meglio è proprio la mano che fabbrica! Allora proprio tutti dovrebbero tessere, se vogliamo che vedano il tessuto? Ma questo sembra un delirio gandhiano di telaio-mania. Inoltre, sarebbe contraddetto dalla storia. E' infatti evidente che, dacché mondo è mondo (o per dir meglio: dacché tessuto è tessuto) la tessitura è sempre rientrata nell'orizzonte percettivo di tutte le culture (esclusa la cultura presente, come già si è ridetto a sazietà). Il fatto è che la nostra società impone una visione molto superficiale e frettolosa. Questa maniera di vedere, la abbiamo ovviamente imparata dal video domestico (2). Così i nostri occhi non sanno più percorrere e perdersi dentro le infinite fibre che costituiscono la texture, l'apparente superficie del veduto (3). Gli occhi (e il cervello che gli sta proprio dietro) si appagano di una icona grossolana, da colpire o da sfuggire come fosse un videogame basta muovere un dito e schiacciare un pulsante. Qualcuno ha già predetto che in futuro i bambini nasceranno con un singolo dito. Personalmente, non lo credo proprio: se questo comportamento sociale si aggrava, non nasceranno più bimbi del tutto. L'uomo mono-digitale sarà piuttosto un clone.
Ritornando al presente siamo inoltre circondati da oggetti industriali e, a questi oggetti fabbricati in serie, manca sempre quel ricco sedimento di gesti, che invece rispecchia la genesi dei veri manu-fatti. In realtà, apprezziamo il manu-fatto artigianale solo se è commercialmente attestato come prezioso. Il tal tappeto antico costa tanti milioni ma il nostro occhio non sa più penetrarlo: sfiora soltanto il cartello del prezzo. Se possiamo permettercelo, non compriamo realmente il tappeto: facciamo soltanto un qualsiasi investimento economico (e ovviamente, di immagine).
A me personalmente è capitato, non dico di riconoscere i mobili antichi, ma almeno di percepirli, soltanto dopo che ho fatto il garzone a bottega di restauro. Mentre che sverniciavo, stuccavo e scartavetravo, mi succedeva quasi di sentire il fiato del maestro che aveva costruito quello stesso mobile, magari due secoli prima. Sulle tracce dei suoi gesti, mi pareva di carpirgli qualche trucco. Allo stesso modo, ho cominciato a vedere le piante soltanto dopo essere stato ortolano (e qui non starò a dire il respiro che ci gira). Per questo, lo studio migliore è quello fatto a mano. E' a bottega (o sul campo) che si incontra il vero maestro, che non è un guru a parole ma praticamente: un mastro artigiano. Il mastro artigiano non perde troppo tempo a insegnare, non tiene lezioni sul come si fa. Lui fa e tu lo aiuti a fare. Perciò non devi perdere di vista nemmeno uno di tutti i suoi gesti, devi sempre cercar di pre-vedere quale strumento porgergli, devi esser sempre pronto a interve-nire nelle ope-razioni apparente-mente più anodine, come spazzare il pavimento di bottega e riordinare i ferri. Così, mentre lo studente impara ascoltando il docente e facendo i compiti, l'apprendista invece apprenderà guardando il mastro e facendo i mestieri. Così, l'obiettivo dichiarato della scuola è l'apprendimento ma in realtà è, piuttosto, l'insegnamento. Invece, l'obiettivo dichiarato della bottega è la produzione ma in realtà ci si va per apprendere il mestiere. Però, nell'Italia che è entrata in Europa (bis), se l'artigianato è praticamente un reato, anche l'apprendistato è sempre punibile come una forma di associazione per delinquere.
Ora qui però, non si trattava dei produttori ma dei consumatori d'arte o (secondo l'espressione di Piero Simondo) non si tratta degli operatori ma degli operati culturali. Ho infatti sostenuto che "tutti dovrebbero tessere, se vogliamo che vedano il tessuto". Certo, sembra praticamente impossibile che proprio tutti possano tessere, anche se ci limitassimo all'infima minoranza dei popoli industrializzati (gli altri, come si è detto, non ne hanno affatto bisogno). Intanto ci si mette di mezzo qualche pregiudizio sessuale, etnico e di casta: perché il telaio è spesso considerato un lavoro da donne, da popoli arretrati, da bassi manovali. Poi, può sembrare un'impresa assai lunga e molto difficile: tutto quel tempo, tutti quei fili dove trovarli, infine, tutti quei telai?
Cercherò adesso di dipanare questa ingombrante matassa di ipotesi teoriche, riconducendole tutte alla loro umile fonte e cioè alla mia esperienza. Corro il rischio di essere egocentrico con la certezza di essere più chiaro. Pochi anni fa, il municipio del mio capoluogo acquistò un kit culturale denominato "Rassegna Internazionale di Arte Contemporanea". Oltre agli eventi artistici maggiori, s'era in messo in cartellone "Maestri di Bottega, Corsi Gratuiti di una Settimana". Com'è, come non è, ottenni appunto il privilegio di esser gratuito maestro per la tessitura (in cambio, oltre al vitto, mi si prometteva 2 mo-stre e 2 foto su cataloghi). L'idea del corso mi terrorizzava: già vedevo una classe di studenti, tutti chini sul loro telaiuccio giocattolo a scampionarsi il compito di tessitura. Sicché pretesi dei telai con i pedali, avanzando il suddetto argomento che la tessitura a mano presuppone anche il piede. Purtroppo si trovò qualche telaio, di pedali ce ne avevan pure troppi perché ai principianti ne occorrono due. Erano troppi anche i candidati al corso. Questa epidemica fame di apprendere, più che commuovermi, mi preoccupava. Così dissi che i telai erano pochi e che perciò, purtroppo mi occorreva un preventivo incontro con i candidati, per una rigorosa selezione.
Al momento dell'incontro, mi appellai al titolo dei corsi: o non s'andava ai "maestri di bottega"? Se a loro interessava, mi potevano fare da apprendisti. Ma c'era da sgobbare, otto ore salvo straordinari, perché c'era da tessere un poncho gigantesco al grande monumento della Piazza e tutto si doveva finire in una settimana. <vai>
Non c'era da aspettarsi "percorsi individuali" o "pezzi ricordo" da poi portarsi a casa. In più, c'era da recuperare i materiali da tessere, ovunque, soprattutto tra i rifiuti. Inutile ripresentarsi a mani vuote. Così, da 60 candidati corsisti, si ridussero spontaneamente a 12 apprendisti. Poi si divisero comoda-mente in due squadre a turno di 4 ore, e già dopo 5 giorni avevano tessuto più 5 mq di moderni rifiuti, dopo averli loro stessi raccattati e, possibilmente, anche lavati. Poi assemblarono a poncho questa loro specie di tela e lo misero effettivamente messo indosso al grosso personaggio che sta in Piazza. Non c'è stato alcun cedimento del tessuto, che ha poi girato impunemente per le più diverse mostre si è visto di peggio, tra le opere d'arte.
Non credo che nessuno di questi "apprendisti" abbia in seguito, mai più tessuto, certamente nessuno ha intrapreso carriere artigiane (4). Sono invece sicuro che ora vedono il tessuto perché hanno imparato a vederlo facendolo. Quanto alla gente che gira lì in piazza, hanno visto la statua del Principe che indossava un bel vestito nuovo: da distante era un poncho colorato, da vicino un gran tessuto di rifiuti. E siccome, in ogni piccola città, poi si viene a sapere sempre tutto, sono certi che è fatto dai ragazzi col famoso telaio di una volta.
Questa applicazione didattica del modello operativo "bottega" non è affatto originale: in fondo è la stessa di ogni laboratorio di spettacolo che si focalizzi sull'esibizione finale. Cambiando arte, è cambiato però lo strumento: i mimi hanno un corpo, i tessitori hanno un corpo attaccato al telaio. E' stato appunto il problema di reperire quest'ultimo strumento, che mi ha in seguito condotto in impreviste direzioni.
Oramai mi intrigava la storia di far tessere il prossimo. Fu allora che la più grossa cooperativa italiana di supermercati mi coinvolse in un corso per l'infanzia. Ero sicuro che coi bambini avrebbe funzionato: tra gli umani, mi erano sempre sembrati i più svegli. D'altra parte, Bruno Munari ci insegna che quando tu vuoi farti capire da tutti, devi sempre immaginare di rivolgerti a bambini.
Però mi occorrevano sempre dei telai con i pedali, perché sono più svelti e così è più divertente: si vede che la tela che cresce a vista d'occhio, ci si muove di più, c'è più chiasso. Ma non potevo certo sacrificare i miei attrezzi personali a degli infanti, e per di più scolarizzati altrimenti i telai si sarebbero, per lo meno, sdegnati. Purtroppo, i telai a pedali che si trovano in giro, hanno sempre l'ambizione di essere macchine professionali. Quale poi, sia l'odierna professionalità del tessitore, non è molto chiaro ma par certo che necessiti di un bel mazzo di pedali. In effetti, l'unico professionista riconosciuto che usi il telaio a mano, è il progettista tessile che realizza campioni per l'industria: è lui che abbisogna di mille pedali (finché non verrà sostituito da un computer). Chissà può darsi che i classici telaiucci da campionatura siano stati ribattezzati "telai da corso" e che poi, divenuti più grandi, gli siano cresciuti di sotto tanti pedali, al posto della selva di levette che avevano in capo.
La complessità degli odierni telai però, non si limita alle loro pedaliere. Altrimenti basterebbe asportargli tutti i pedali e i licci superflui. Il telaio a pedali è una tecnologia che può risalire alla semplicità del neolitico, ma il telaio moderno è quasi sempre dell'età del ferro (o piuttosto, della ferramenta). C'è anche molto legno, ma è tutto armato di mille rotelle, molle e staffe, ingranaggi, arpionismi e guarnizioni. Troppo difficile, persino per dei semplici bambini. La mia macchina invece, idealmente, non doveva contenere alcun mistero (5).
Così i telai, ho dovuto costruirmeli. Per fortuna quei supermercati avevano annessa una grossa officina meccanica, dove c'era gran piazzale con un bel cumulo di arredi da rottamare: carrelli, espositori, banchi frigo, eccetera. Con questo materiale e con l'attrezzatura dell'officina, ho potuto costruire dei telai che in quanto al materiale, appartengono interamente all'età del ferro ma che però, in quanto ai meccanismi, sono di una semplicità neolitica. <vai>
Ai bambini (gente di 6 e 7 anni) gli si contò una storia. La situazione, in breve, era questa: una femmina gigante fa la spesa nel noto super-mercato. Fa ovviamente una spesa giganesca. Non sa dove metterla perché le sportine di plastica sono troppo piccole. I suoi figli, i bimbi Giganti vogliono regalarle una borsa gigantesca (dove entreranno molte più merendine). Incontrano un misterioso personaggio di nome Tessitore che gli spiega come fare la borsa: debbono raccogliere 10.000 sportine di plastica, usare una formula magica e infilarle in una macchina, che le trasformerà nella stoffa necessaria per mettere insieme la borsa gigantesca. Il nome della macchina è Telaio. La formula magica è Pas Camm Tir.
"Pass Camm Tir" è la abbreviazione di "passa, cammina, tira". Questa formula è un espediente per assumere i tre movimenti corporei del tessitore, che sono:
"passa" la spola da una mano all'altra,
"cammina" col tuo piede su un pedale
"tira" il pettine verso di te (6).
Ma questo, i bambini lo sapranno solo dopo. Prima devono memorizzare la formula cantandola in coro (o piuttosto, gridandola). Poi devono danzare i tre movimenti al ritmo della formula (7). Con questo vile ma antico espediente, non dovranno concentrarsi a capire con la testa ma invece, concentrarsi a fare con il corpo. L'esercizio gli permette, tra l'altro, di muoversi e strillare, attività che allentano notevolmente la tensione e diminuiscono quella distratta agitazione, che è talmente fastidiosa nel fanciullo videotizzato...
Subito dopo questo movimentato e chiassoso rito di gruppo, lui si trova solo davanti al telaio. Come si fa? Pass Camm Tir! Quando si imbroglia, gli si scandisce il passo giusto della formula.
L'ordito che si ora apre davanti al bimbo tessitore, è largo un buon palmo ma è molto grossolano: non più di 30 fili enormi e davvero difficili a rompersi. I fili che entrano nei due diversi licci sono segnalati da due colori contrastanti, così lui vede bene come si muovono su e giù. Nell'apertura dell'ordito, lui infila una sporta di plastica, che intanto gli hanno ritagliato i compagni, così non gli danno fastidio. <vai>
La Borsa Gigantesca risultò con un perimetro di 5 metri di e un altezza di 2, venne appesa alla cupola del noto supermercato, con l'accompagnamento di un telaio sul quale, più di cento piccoli maniaci si avvicendavano, per continuare a tessere un estremo scampolo di Borsa. La galleria del noto supermercato fu indubbiamente animata dall'evento ma purtroppo, la ditta non ritenne opportuno di offrirci la più piccola gazzosa. <vai>
Perché i bambini sono grandi tessitori? A quell'età siam tutti degli artisti. Inoltre, sono personalmente convinto che nella tessitura si annidino le origini delle astrazioni logiche e linguistiche. Questa mia personale convinzione mi sembra confermata dal mito che riserva il patronaggio (8) delle attività tessili, nonché di quelle intellettuali, ad Athena-Minerva: cioè alla dea che nacque direttamente dal cervello di Zeus. In verità, il mito deve ammettere che la mortale Aracne tesseva assai meglio di Athena ma, siccome gli dei sono eternamente invidiosi, questa Aracne fu degradata, da umana, a una specie bestiale: gli aracnidi fu insomma, trasformata in ragno. Così il telaio ha in sé qualcosa di divino e bestiale il che, secondo Nietzsche, è appunto una caratteristica del filosofo (9). Dunque può darsi che il bimbo, normalmente addestrato ad adeguarsi a una supposta età della ragione, goda nel tessere alcunché di bestiale. Infatti, il telaio sostituisce l'imperativo pedagogico della produzione di un testo, con l'obiettivo pratico della produzione di un tessuto. In questa operazione, l'astratto "filo del discorso" ripristina la propria concretezza: è ricondotto a una cacca di ragno, a uno sputo di baco, a un pelo di bestia. Nel caso della Borsa Gigantesca, la corporeità di tutti questi estrusi più o meno fecali, fu meramente sostituita dall'altrettanto vile materia dei rifiuti in plastica del moderno corpo sociale, fin troppo più facili a reperirsi
Filosofemi a parte, credo che l'aspetto macchinico di questi telai di ferro sia molto attrattivo per l'infante moderno: egli ha l'ebbrezza di manovrare una macchina più grande di lui, può benissimo illudersi di guidare una ruspa, un trattore, addiruttura un'astronave. Certo sarebbe assai meno entusiasta se invece, gli venisse proposto: "Adesso facciamo le stoffe proprio come le faceva la nonna" anzi (oramai) la bisnonna. E' vero che "quando la tela è tirata / ci sa tessere anche la capra" ma non si può pretendere che un bimbo di 6-7 anni monti un ordito. Non di meno, nel tessere la trama, si acquisisce una qualche maestria sulle tensioni e trasmissioni della fune e pure, sulle macchine semplici: leva, carrucola, verricello.
La tessitura della Borsa Gigantesca fu in realtà portata a termine in mia assenza, in orari e spazi scolastici e sotto la guida delle insegnanti in carica. Ho però avuto una riprova della semplicità dell'operazione quando mi sono trovato in Norvegia per tessere quel lungo treno di plastiche e stracci, che certamente avrete notato all'interno della famosa stazione di Moelv, nei pressi di Lille Hammer (10). <vedi>
Sono sicuro che lì non c'è stato alcun lungo, paziente e vigile intervento pedagogico. Lì, i telai erano sottoposti all'avvicendamento continuo di sempre nuovi infanti<vedi> spesso del tutto sprovvisti di maestre. Naturalmente, la formula magica fu per l'occasione tradotta in Norvegese. Oltre queste tre parole in Norvegese, mi fu necessario pronunciarne altre cinque: bicicletta, mano, piede, destra, sinistra.
"Bicicletta" si dice quando il bimbo poggia i piedi nel telaio. Ciò significa: un piede su, l'altro giù e mai abbandonare i pedali.
"Mano destra, piede destro" o "mano sinistra, piede sinistro", gli si dice quando la trama si sfila perché ha sbagliato il passo. Se il telaio non s'è rimesso in moto, si ripetono esattamente sempre le stesse parole, non una di più, per quante volte occorrono. Prima o poi, il tessitore riparte, anche se forse non sa di preciso, dove stiano la destra e la sinistra. Si potrebbe pur dirgli: "fai un passo con la destra (o sinistra)", oppure: "usa la mano che sta dalla stessa parte del piede che tieni premuto" ma sono comandi fin troppo complessi persino in Norvegese (11). Non vorrei che tutte queste storie di bambini facessero intendere che qui si tratti di "esperienze didattiche": se il telaio non si limita a un sesso definito, non si limita neanche a un'età. Difatti, al Treno di Moelv (che fu pronto in cinque giorni), hanno tessuto anche una quarantina di adulti. Il più anziano era un maschio oltre i 70 (12).
Un osservatore italiano (13) allora notò che quel Treno aveva un impasto cromatico tipicamente norvegese. Naturalmente, questo effetto non era previsto e neppure programmabile: il più delle volte, si infilavano materiali a casaccio, uno via l'altro, mentre il telaio cambiava sempre di mano e inoltre, la tela già tessuta, andava come al solito, a nascondersi sul subbio. Eppure, l'effetto cromatico del Treno è analogo a quello che è offerto da un affollato passeggio di Oslo, da un paesaggio naturale, da un interno domestico, da un quadro di Munch e, ovviamente, da un loro costume tradizionale. D'altra parte, si dice anche: i tipici colori indiani, africani o meso-americani. Visto che il Treno è tessuto con materiali locali, sia plastici che tessili, è ovvio che ne risulti una sorta di media statistica dei colori che circolano oggi in Norvegia. Molto meno ovvio è che questa società di mercato, tra le più ricche del pianeta, conservi un suo stile.
Certamente, in tutti gli analoghi lavori di "tessitura onnivora" che ho diretto in Italia, non si percepisce il "colore italiano", perché in effetti questo non esiste. L'assenza di questo fenomeno mi sembra risalire, una volta di più, al Rinascimento. Allora, noi si inventò la moda, la quale com'è noto, deve per forza passare di moda. Questo effimero stile coinvolse all'origine soltanto le classi più agiate delle "cento città" ma, dopo il recente etnocidio delle culture rustiche, è oggi trionfante. D'altra parte, come tessitori, non avendo tradizioni vitali da difendere, siamo forse più liberi di sperimentare. Poi capita pure di realizzare inconsapevoli repliche, ma su quest'argomento affascinante, troppe ce n'è da dire e disquisire ora è meglio tornare a quel telaio, che deve far vedere ai non-tessitori. Altrimenti il nostro bel tessuto, tradizionale o sperimentale che sia, resta ancora invisibile.Poncho, Borsa, Treno (e altri grossi, nonché grossolani lavori del genere, sui quali si risparmia qui notizia <vai> <vai>) hanno in comune certe caratteristiche:
1) Sono stati tessuti da assoluti principianti, con i materiali che essi stessi hanno recuperato.
2) I molteplici apporti individuali si intessono tutti in una singola opera.
3) Questa opera è destinata a un preciso luogo.
4) Questo preciso luogo è normalmente frequentato (una piazza, un supermercato, una stazione è capitato persino a un distributore di benzina).
Il luogo è noto a tutti, non soltanto è accessibile ma è già di per sé negli usi e passaggi quotidiani. Così è molto più probabile che anche gli estranei ai lavori incontrino il tessuto. Il tessuto in questione non ha le classiche pretese artistiche, tutt'altro: funziona da costume carnevalesco che traveste uno spazio quotidiano in effetti, è realmente arlecchinesco, con tutti quei colori scompagnati. La sua presenza lì, è immediatamente giustificata da un lazzo (la statua aveva freddo, la Giganta senza sporta, il treno che non ferma ). Questi ridicoli pretesti (14) neutralizzano la classica domanda: "Se è un'opera d'arte che cosa vuol dire?" Tranquilli, dunque: sarà magari di razza un po' strana, ma in fondo non è altro che un tessuto. Già, si vede persino l'incrocio dei fili con "Guarda lì, guarda là che inserti buffi, ci hanno infilato pure una dentiera, una freccia, una pipa, una ciabatta" "Ah, ma proprio tutto, tutto è tessuto con le sporte e i sacchetti: quello nero sarà dell'immondizia, in quello bianco ci si legge COOP. Quello celeste no, non è plastica, fammi guardare meglio" (15).
Ciò che più mi sorprende, nelle reazioni del pubblico, è che mai nessuno si disgusti di queste rozze esibizioni. Anzi: piacciono sempre le trovano "belle". Mi riferisco sempre al pubblico stradale, perché gli esteti di professione sono troppo impegnati ad osservare altrove, magari ai capolavori di quell'arte recuperista (16), oramai canonizzata ai più alti livelli museali. Peccato, perché sarebbe interessante analizzare i canoni sottesi a l'universale gradimento di queste operacce di strada, tramate su alla peggio da labili compagnie di assoluti dilettanti? Se questi lavori fossero invece classificati e percepiti come esemplari di arte moderna, sarebbero subito molto più ostici. Esiste un Bello tessile? E' una variante del Bello pittorico? O viceversa? O tutt'altro? Questioni appassionanti e stratosferiche per ricondurle all'origine, sono arrivato a concludere che bisogna esporre al pubblico anche il telaio che funziona.
"Mettere in campo il telaio che va". Qual'è la differenza con le dimostrazioni artigianali dal vivo", tanto esecrate lassù, all'inizio di questo ormai lungo discorso. Qui non si viene a vedere il tessitore; qui si viene a tessere. Chi vuol limitarsi a guardare chi tesse non si illuda di aver visto un artigiano: è solo un altro tipo di passagio
Così, nel lavoro che ho attualmente in corso, il luogo di produzione dell'opera coincide con il luogo della sua destinazione: ci si espone così a un work in progress o "cantiere infinito" <vai>. Si fa tessere la solita tela di recuperi, con il solito telaio di recupero. Questa volta la tela però, non viene mai staccata dal telaio: è una striscia infinita. Naturalmente, quando l'ordito sta per esaurirsi, gli se ne attacca dietro un altro, collegandolo filo per filo alla coda (o piede) dell'ordito precedente. Davanti al telaio intanto, la striscia già tessuta si ammatassa su una sorta di aspo gigantesco.
Questo aspo, in realtà, non gira: sarebbe troppo pericoloso. Per il momento, è uno scheletro di tubi infissi nel tereno, che può ricordare la struttura conica delle tende indiane. Difatti, il tessuto darà alla struttura l'aspetto del tee pee o piuttosto, di una torre babelica, perché la copre disponendosi a spire, che si incentrano nel vertice del cono (o meglio: piramide). Quando la coltre arriva fino a terra, allora si può smettere di tessere. Poi si smonta il telaio, si dipana via la stricia dalla sua impalcatura e si rimonta il circo chissà dove. C'è già un pezzo di tendone bell'è fatto, perciò la struttura dei tubi dovrà crescere sempre in altezza, così da ricevere la nuova prolunga di tessuto. In teoria, l'unico limite costruttivo che si pone alla crescita di questa struttura, sta nella larghezza della base di appoggio: questa infatti non può superare il diametro terrestre.
Questo cantiere nomade è oggi appena iniziato, si intitola Casa Globale o piuttosto Global Home, così lo si capisce anche di più, visto che poi girerà senza limiti (17). Che si fa? si tesse. Che si tesse? il contrario della torre di Babele. Infatti, Global Home ha come suo pretesto l'inversione grottesca della torre di Babele, che è qui ricostruita dal cielo verso terra, in assenza di schiavi, a partire da lingue, stili e materiali diversi. Lavoro inesauribile ma sempre di per sé già completo. Torre non più fissa, dura e impenetrabile, ma nomade, soffice, accogliente e smontabile.
Tralasciando ogni altra implicazione (estetica, etica, sociale o pur metafisica), qui interessa osservare quel telaio, che resta sempre attaccato alla tela, come un ragno che mai non si stacca dall'estremo del filo della sua ragnatela. Il telaio sta ancora secernendo il tessuto e ciò spiega di per sé allo spettatore la ragione costruttiva dell'opera. D'altra parte (e pure d'altro capo), chi è tentato a intervenire nela trama, ha già chiaro davanti l'obiettivo risultato delle sue macchinazioni. E superfluo ogni racconto: la tessitura qui parla da sé, può essere praticata e intesa da tutti e dappertutto, dove è più la Babele delle lingue?
A questo punto, il telaio è già arrivato al traguardo promesso nel titolo: "da feticcio antiquariale a strumento di arte pubblica". Che cos'è l'arte pubblica? Normalmente, con l'aggettivo /pubblico/ si intende "qualcosa che appartiene allo Stato" e con il sostantivo /il pubblico/ si intendono "gli spettatori". Entrambi questi termini rientrano ben poco in quel fenomeno universale che, arbitrariamente, si è battezzato "arte pubblica". Dal 1997, esiste addirittura un Istituto di Arti Pubbliche (IAP). L'attività di questo IAP è per lo più molto pratica: organizza e gestisce dei cantieri (18). Ha però anche una carta di Principi Fondamentali, che converrà citare. Ma prima, è necessario notare che la parola /gente/ vien qui scritta con /g/ singola e non doppia; non va perciò confusa col famige-rato concetto di "ggente", che è l'erede antifascista di quel "pòppolo", espresso in doppia /p/ dal Mussolini.
Definizione, dunque.
/Arte pubblica/ significa: "una produzione esteica realizzata con la gente, tra la gente e per la gente".
/Realizzata con la gente/ significa: "un progetto realizzato con persone senza particolari competenze".
/Tra la gente/ significa: "l'ingresso ai lavori è aperto di norma alla curiosità dei non addetti".
/Per la gente/ significa: "il prodotto viene installato o eseguito in un luogo ac-cessibile a chiunque".
Evidentemente, L'Istituto non si è inventato nulla di nuovo: per produrre carnevali o cattedrali, sono stati sempre indispensabili mille interventi attivi, appassionati e gratuiti di "persone senza particolari competenze". Danze e cori, banchetti e funerali, decori, monumenti e architetture le più svariate forme di arte pubblica sono riscontrabili in tutte le epoche e sotto tutti i climi. Tranne una sola importante eccezione: la moderna cultura economico-industriale, in cui l'arte pubblica appare confinata alle macarene o alle parate delle tifoserie dentro e fuori dagli stadi. Infatti, questa nostra cultura non favorisce le attività gratuite ma, al contrario, si fonda sulla passività dei consumi mercantili. Qui l'arte è di norma, una merce di lusso: diventa una produzione esclusiva ad opera di specialisti, la cui distribuzione andrà per canali esclusivi. D'altra parte, nel "pubblico" si anchìlosa quella abilità o spirito manuale, che è invece così banalmente normale in qualsiasi cultura pre-automatica (salvo eventuali caste intellettuali). Sicché, nei paesi tecnologicamente più evoluti, qualsiasi opera di arte pubblica dovrà accontentarsi delle più rozze collaborazioni. Appunto per questo motivo, per sviluppare l'arte pubblica, oggi si raccomanda di ricorrere alle operazioni più elementari come, ad esempio: battere un telaio.
NOTE
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