Triana, 96.11.05
Caro Rudi,
(...)Vorrei ora infliggerti alcune mie idee, forse troppe, suscitate
dalla mia breve esperienza di cooperazione in India come mastro
o designer di tessitura. Può darsi che certe osservazioni
ti risultino ovvie, in quest'ultimo caso, meglio così.
Tra l'altro, mi sono trovato a lavorare pure
al Gandhi Rural Rehabilitation Centre di Alampundi (Tamil Nadu),
che intrattiene rapporti con il Ctm. Qui avevo l'incarico di realizzare
dei particolari tappeti per
Il Gioco Infinito di Alessandra L'Abate (dalla quale mi sono poi
dissociato per disaccordi). Comunque sia, al Grrc mi sono trovato
a introdurre una tecnica completamente diversa dalle tele che
producono loro, novità che per altro i tessitori hanno
appreso molto velocemente. Ma la cosa che mi ha più gratificato
è che, di fronte al compito di scegliere personalmente
i colori nel corso stesso del loro lavoro (altra novità),
i tessitori si appassionano. Quando il pezzo è finito, se lo portano a
casa per farlo vedere a parenti ed amici. Da una parte ciò
mi conferma la vecchia idea che ogni uomo è un artista
ma, dall'altra, consente di fatto la crea-zione di tanti pezzi
unici. In Occidente andrebbero firmati...
I telai del Grrc sono diretti da un ottimo Maestro, il Sig. Mani,
che proviene da un villaggio di tessitori
di tradizione: a differenza dei suoi allievi
lui è dunque un tessitore di razza (o di casta, per meglio
dire). Spesso Mani viene criticato perché sarebbe troppo
tradizionalista. E' stato mandato a frequentare corsi di aggiornamento
allo Institute of Hand Loom Technology di Salem eppure rimane
restio ad accettare i nuovi disegni. Si attribuisce questo atteggiamento
a motivi caratteriali: si sa poi che ogni artista è fatto
a modo suo. Ora, questo è pure possibile ma bisognerebbe
anche ricordarsi che il modo in cui lui è fatto non è
solo il "suo". Questo Maestro infatti incarna qualcosa
che è antico di secoli. Non si tratta soltanto di tecniche
produttive, ci sono anche dei canoni estetici che rientrano nel
concetto di dharma. In questo dharma artigianale, per esempio, certi accostamenti di colore sono vietati,
quasi immorali. Se non si tiene conto di questo e ci si ostina
a ragionare con la solita nostra testa europea, i rapporti si
complicano: non si riesce ad approfittare di un enorme esperienza
e si finisce poi nel concludere che gli Indiani non capiscono
niente
Temo che nessuno si sia mai troppo occupato di queste faccende:
moltissimi insegnamenti spirituali dell'India sono stati studiati
e tradotti mentre invece l'universo culturale artigiano non sembra
così interessante. Del resto è logico: il progresso
industriale pare aver sostituito in maniera più efficiente
le produzioni tradizionali. Ha lasciato, è vero, qualche
vuoto riguardo al senso della vita e perciò si è
cominciato a guardare con più curiosità agli insegnamenti
filosofici d'Oriente. L'organizzazione e la trasmissione di quest'ultimo
sapere è sempre stata però identica a quella della
sapienza artigiana: il rapporto guru/allievo era identico a quello maestro/apprendista. Può
darsi che le analogie non si fermino qui, che addirittura la distinzione
tra questi due campi sia tale soltanto ai nostri occhi occidentali.
Del resto, si è gia riconosciuto qualcosa del genere nelle
tradizionali arti del Giappone.
Ma ora non posso né voglio addentrarmi
in faccende esoteriche. In India, nel solo Stato del Tamil Nadu,
vivono oggi oltre tre milioni
di tessitori che ancora lavorano con i
telai a mano. Dal punto di vista del "commercio solidale", questa
realtà può ap-parire in primo luogo come un problema
economico: come assicurare salari decenti attraverso prodotti
vendibili e un equa distribuzione. Oltre, naturalmente, all'or-ganizzazione
sociale della produzione;
Personalmente ho sempre creduto che l'importazione dei manufatti
"solidali" debba essere non soltanto un offerta culturale
nell'unico senso di proporre un sistema più giusto di ripartire
i profitti e di reinvestirli per lo sviluppo della comunità
locale. Vorrei dire che, oltre al valore di scambio, bisognerebbe
guardare anche al valore
d'uso, cioè che oltre alla quantità
dei posti di lavoro c'è anche la qualità dei prodotti.
Altrimenti non si andrebbe oltre a una versione laica delle mostre
missionarie tradizionali: insomma la classica vendita di beneficenza.
Il consumatore equo dovrebbe perciò poter accedere a un
prodotto diverso, in un certo senso "pregiato" rispetto
agli standard del mercato industriale. "Pregiato" non
significa necessariamente "di lusso": può essere
anche un umile bustina di argilla dentifricia alle erbe (£
30 al minuto, in Sri Lanka). So che nel settore alimentare, cosmetico
e erboristico, questo lavoro è già in atto: ci sono
in offerta prodotti agricoltura biologica.
Nel settore artigiano invece, mi sono speso imbattuto in un'oggettistica
agghiacciante. Da un analisi di mercato (accennatami da Tim Straight
di Alternativ Handel) risultava che il "consumatore equo medio"
cerca un oggetto regalo non troppo costoso, artigianale ma non
troppo "etnico". Va bene, ma anche il consumatore può
essere educato, non è questo già un obiettivo del
commercio solidale?
Così torniamo nuovamente ad Alampundi,
cioè al Grrc. Qui si producono tele di Madras, sia nel
tipo tradizionale che serve per i loro lungi che in una
versione più grossolana utilizzata con cui confezionano
principalmente capi per l'infanzia. Questo tessuto è concepito
per l'export perché, se la stoffa fosse troppo fine, il
consumatore occidentale non sarebbe più in grado di rendersi
conto che è davvero fatta a mano. Infatti le nostre bancarelle
e boutique sono piene di tele indiane fatte a mano, senza che
nemmeno stia scritto sulle loro etichette: Sono i prodotti dell'artigianato segreto di milioni di tessitori, pagati sempre un tozzo di pane (un pugno di riso,
cioè) a parte quei pochi fortunati che stanno in cooperativa.
Artigiani che, a dir la verità, lavorano cento volte meglio
di noi tessitori occidentali. Ma questo sarebbe un altro di-scorso,
forse.
Mi sembra necessario valorizzare questo lavoro, renderlo cioè
riconoscibile. Mi rendo conto che non è un impresa da poco
e che va in una direzione affatto opposta a quella vigente. Ciò che rende prezioso un tessuto è infatti per noi la grande firma dello stilista,
con tutte le girandole promozionali del glamour.
Ho però individuato, come si dice, un percorso. Tra le centinaia di campioni che ho visto nel book di Mastro Mani, c'è un certo disegno chiamato mamta. Non ho ancora scoperto che cosa significhi in Tamil questa parola ma c'è da aspettarsi di tutto: già si è visto nel Sahel come ogni pattern avesse un suo nome esoterico. Comunque sia, questo mamta è un antico modello fuori commercio: a Madras ho girato per due giorni nel bazar delle stoffe e non mi è riuscito di trovarne neanche un esemplare. Le tele di Madras sono sempre a quadri ma la particolarità di questa è che ha un pattern più grande di un metro. Ciò vuol dire che nel singolo taglio di un lungi il di-segno non si ripete più di una volta sicché offre all'occhio come l'effetto di un patch-work di stoffe diverse. Ma se noi lo guardiamo disteso su una superficie piana, i frammenti apparentemente eterogenei si compongono simmetricamente attorno un nucleo centrale. Insomma diventa come un grande mandala. Può anche darsi che in effetti lo si, per lo meno equivale a un dipinto astratto-geometrico, al lavoro di un Vasarely.
Si tratta di studiare
questo mamta, svilupparlo, mostrarlo, e applicarlo ad uno più prodotti. Lo studio comporta l'identificazione
di quel rapporto costante tra i fili che soggiace a tutte le varianti.
Infatti la struttura del mamta si manifesta in differenti
composizioni cromatiche o, per dirla all'Indiana, si incarna in
tanti singoli tessuti che non sono affatto uguali tra loro ma,
al contrario, hanno i colori più diversi (tradizionalmente
all'interno di quel dharma artigiano cui accennavo prima).
C'è poi da individuare queste varianti, sia raccogliendo
quelle reperibili che disegnando le altre con l'aiuto dei Maestri
e di un semplice software di grafica tessile. Si possono poi realizzare
praticamente alcune di queste varianti: ognuna rientra in una
pezza di 16 metri dal costo sul mercato intorno alle 50.000 lire.
A questo punto si può fare una mostra (in India e in Europa)
dove si vede il tessuto reale teso ed esposto proprio come un
quadro, insieme con il tessuto virtuale che si trasforma sullo
schermo del computer. Questa contaminazione
con i rituali pittorici e informatici non
sarebbe soltanto didascalica, serve pure ad attribuire una dignità
culturale a quest'arte tessile considerata finora di infima casta.
Naturalmente va qui documentato pure il contesto della produzione:
i telai, gli artigiani,
il villaggio, la cooperativa del Grrc,
la storia economica dell'India e così via.
Dato che il lungi non ha un grande mercato da noi, va presentata
anche qualche applicazione del mamta al nostro mercato.
La più semplice potrebbe essere una specie di foulard,
che potremmo chiamare "kefia indiana". Poi magari camicie,
capi femminili, arredi vari. Questi valgono principalmente per
l'Occidente, in India il mamta può tranquillamente
tornare ad essere una stoffa per lungi. Sarebbe già
un bel risultato, se penso che proprio il mio Maestro Mani prediligeva
i lungi in poliestere, abbinati a camicie assai fantasiose
dello stesso materiale. Però, dopo averlo asfissiato con
le mie domande sul mamta, l' ho visto finalmente indossarne
uno anche lui...
Mi sono fin qui limitato a una sorta di revival. Come designer
però, cerco sempre di tenere in mente gli insegnamenti
di Bruno Munari. Anche se personalmente non sono un industrial
ma, per così dire, un hand designer, cioè
un designer artigianale: uno che non ha a che fare con il funzionamento
di macchine ma con quello degli esseri umani, che sarebbe un po'
diverso. Però qui Munari mi aiuta lo stesso, infatti così
scrive a proposito del lavoro dell'architetto Tilak Samarawickrema
con i suoi tessitori Singalesi (tutti miei carissimi amici, oso
dire). Insomma, cosi scrive il Munari:
Per molta gente la tradizione
è qualcosa che sta dietro di noi,
nel passato, e che noi dovremmo conservare. Operare secondo la
tradizione, si dice. La tradizione è la somma delle memorie,
delle regole, dei modi di essere e di progettare, che si trasmettono
da una generazione all'altra. Se si ripetono le regole della tradizione,
non si aggiorna l'insieme delle memorie e si resta nel tempo passato
senza partecipazione del presente. La tradizione quindi non va
considerata come qualcosa dietro di noi ma dentro di noi, nel
nostro pensiero, nel nostro modo di essere e di progettare.
In questo modo la nuova generazione si fonde con la tradizione
e ne nasce un nuovo prodotto che ha sempre radici nella storia
del luogo ma al tempo stesso
è il segno delle nuove generazioni
nel campo della decorazione e dell'arte visiva.
E' quindi la tradizione
che non sta dietro di noi ma dentro di noi,
che emana fuori di noi i nuovi segni e i nuovi accordi estetici.
Così il mamta può
avere una sua evoluzione, con la collaborazione magari del dipartimento
di Architettura dell'Università di Madurai
(Tamil Nadu), dove già dovrei inventarmi un work-shop di
hand design per gli studenti, mettendoli di fronte a problemi
non di forma ma di costruzione (M. Van Der Rohe). Poi forse,
grazie al solito Internet, si potrebbe impostare uno studio internazionale.
Ma siccome, più che designer, sono io stesso artigiano
in prima persona, credo che oltre ai contributi degli intellettuali
sia ancor più vitale riuscire a stimolare gli interventi
creativi dell'artigiano stesso che deve tessere al telaio. Non chiedono di
meglio: l'ho verificato non solo al Grrc ma anche alla Weaving Section nello Shantimalai Trust (Smt)
di Tiruvannamalai e all'Atélier Imagination di Auroville.
Il prodotto risulta più autentico e, in fondo, è
molto più semplice che imporre un modello...
Per finire, qualche dettaglio più pratico.
Mi sono già inteso sulle linee essenziali di questo progetto
(ricerca, tessitura di "campioni" e mostra) con il Direttore
del Grrc, il Sig. G. Kumar, il quale mi ha offerto ogni possibile
collaborazione. Credo di intendermi ormai abbastanza con il Mastro
Mani che oramai mi identifica in un certo senso come collega.
Pure i suoi tessitori poi, mi hanno confessato che si divertono di più a tessere disegni complessi come il mamta piuttosto
che le quelle tele monocrome che gli tocca anche di fare. Potrei
anche contare su qualche giovane "educated" come assistente
e interprete (infatti ho qualche difficoltà con la lingua
Tamil). (...)
Bene, per il momento non mi resta altro da dire, tranne che devo
ancora trovare chi in Occidente voglia in qualche modo sostenere
e finanziare tutti questi bei discorsi. (...)Cordialmente
Luciano Ghersi
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