Weligama 23 02 92
con l'antica Olivetti di un Bonzo
e senza bianchetto.
In Sri Lanka sono
ancora ben visibili le tracce dei primi passi dell'umanità.
Sulla vetta del Picco di Adamo giungono pellegrini di ogni religione
per venerare le impronte del nostro comune antenato impresse nella
roccia . Ma per quanto sia universalmente diffusa l'identificazione
con l'Eden di questa isola benedetta, ben pochi suoi aspetti hanno
a che fare con una natura
originaria. Infatti tutte le sue piante
più caratteristiche hanno un ben documentato certificato
di immigrazione: il tè con gli Inglesi, l'albero del pane
con gli Olandesi. Persino l'indispensabile e polivalente noce
di cocco è arrivata fin qui galleggiando dall'oceano Pacifico.
Gli alberi sacri al buddhismo furono trapiantati dall'India: talee
di quel "Ficus Religiosa" sotto il quale l'inquieto
Siddharta realizzo finalmente che non c'è nulla da raggiungere.
Per arrivare ad oggi, che bambini seminudi e scalzi, con tre legnetti
e un fagotto di palla, giocano a cricket. E studiano, quando studiano,
in scuole Montessori, la quale a suo tempo, si trovò pure
lei ad approdare in Sri Lanka.
E' rimasta memoria di una casta di tessitori che svolgevano contestualmente
la funzione di astrologi (contando già allora nove pianeti)
nonché di musici e danzatori sacri. Ma visitando oggi i
centri di tessitura mi sono sempre incontrato con la celebre "navetta
volante" di John Kay. Quando poi chiedevo i nomi dei vari
strumenti mi rispondevano sempre con un termine approssimativamente
inglese. Anche se le tessitrici (oggi femmine) si esprimono soltanto
in stretto Singalese.
Sicché mi sono vieppiù convinto della mia vecchia
idea che "Siamo tutti paguri e la creazione è un mito"[<<
3.4.10]]. Ovvero che nulla
si crea ma tutto si trasforma, si copia, si ricicla. O da cosa, non dal nulla, nasce cosa
". Credo che i singalesi ne fossero ben consapevoli perché
quando si trovarono obbligati, in circostanze coloniali, a nominare
il Creatore, dovettero ricorrere ad un termine portoghese. L'arte,
invece, esiste e consiste appunto nella scelta e nella trasformazione
degli ingredienti. Come dimostrano le processioni carnevalesche
e insieme religiose: i costumi vengono assemblati con le cianfrusaglie
più eteroclite. Tra cui emblemi rituali, arcaici sonagli,
il sari buono della mamma, foglie di palma, sacchetti di plastica,
maschere lignee, occhiali da sole, porporina. Ammirando l'eleganza
innegabile del loro eclettismo, forse si comincia ad intuire come
sia sedimentato l'immaginario di questo popolo artista e burlone.
E magari, alla maniera degli Illuministi, se questo sia poi diverso
da quello nostro[3.4.9].
Sicché non ho avuto molti dubbi intorno alla scelta della
mia paccottiglia. Senza alcuna connotazione spregiativa, al tempo dei
velieri si chiamava /paccottiglia/ quel bagaglio appresso che
il passeggero aveva il diritto di imbarcare in vista di piccoli
commerci. Avevo notato subito dei cuscini (e copriletto) in patch-work
che sono l'arredo più umile delle già umilissime
case singalesi. Il materiale è estremamente povero e spesso
si tenta di ricostruire una pseudo-stoffa con ritagli di sartoria
tutti di un unico colore. Altre volte invece è l'arte a
scatenarsi in operazioni per me sconvolgenti, dove convivono colori,
materiali, frammenti ricamati, figure e scritte. Ogni simmetria
è dissolta in un equilibrio che certamente non è
classico ma di sicuro è molto più realistico e vitale.
Frutto del caso? Ma ogni cosa nell'universo è figlia
del caso e della necessità. In questo "caso",
della necessità artistica che come si sa, travalica spesso
le intenzioni dell'Autore[<< 2.4.4.2].
Così, mentre tutti mi offrivano pregiatissimi batik (tecnica
arrivata qui da Giava nel 1900) o squisiti pizzi al tombolo (introdotti
nel 1600 dagli Olandesi), io rimestavo le bancarelle più
vili, entusiasmandomi per l'incontro di un frammento in poliestere
dove è scritto in oro "90 Yard" (misura della
pezza) con una mussola traforata di quelle che si portano, a corpetto
sul sari. Poi ho dovuto convincere un sarto schizzinoso a fornire
tutta la mia collezione di cerniere
lampo (che in Singalese si dice /Zip/).
Prima doveva andare dal dottore, poi a un matrimonio, dopo ancora
mancava la luce, infine ero praticamente una vecchia conoscenza
sicché non ha più potuto tirarsi indietro. Siccome
cerco anche di imparare a leggere e scrivere, dove mi è
sembrato il "caso", ho impresso i bellissimi caratteri
dell'alfabeto singalese. Così si capisce anche (se non
l'origine) la provenienza. Infine li ho firmati
perché mi sento pienamente responsabile di questa scelta.
E' un atto ufficiale di
adozione che vuol offrire un nome (spero) rispettabile a questi
figli naturali di un anonimo ma artistico concepimento. Ma per la precisione e per coerenza con i suddetti
principi anti-creazionistici, la firma non è "ghersi"
ma: "& ghersi". Spero che chi
abiterà con queste opere /o operazioni, /o cuscini)
vi scopra spesso qualcosa di nuovo, come in ogni opera d'arte
che si rispetti[<< 3.3.6], senza però mai dimenticare
che, per quanto splendente sia una singola stella, la verità
è sempre costellazione.
Tratto da: L'Essere e il Tessere # 09.06.01
(Urtext 92 e 93, Loggia dei Lanzi FI 96)
Un esemplare di Paccottiglia Singalese, inserito
da Daniel Spoerri nella sua Chambre
N° 13, è approdato nel 1997 al Guggenheim
Museum di NY.
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